Introduzione

Penso che una nuova era del contrabbasso sia già partita da tempo e penso che oggi stia raccogliendo tanti buoni frutti, con tanti musicisti in grado di influenzare ed arricchire idee e conoscenze. Prendendo spunto da alcune registrazioni pubblicate negli ultimi due anni, ho pensato che una sorta di simposio del contrabbasso fosse possibile: in particolare mi premeva rilevare l'importanza di alcuni autori ed esecutori, alcuni più sviscerati dalla stampa, altri troppo genericamente trattati, e scontarne il contenuto. E' su questa lunghezza d'onda che ho trovato fosse indispensabile:
a) il lavoro di Dario Calderone, contrabbassista concentrato sulla fenomenologia di Tenney, la ritualistica di Netti e la novità del live electronics e del video a supporto (supportata dalla composizione di Baroni);
b) riproporre indomito i caratteri di un compositore eccezionale nel contrabbasso come Stefano Scodanibbio, alla luce degli sforzi interpretativi di Daniele Roccato, che ha sistemato discograficamente capolavori come Ottetto e Alisei in un cd recentissimo per la Ecm R.;
c) sviluppare l'enfasi teorica di Barry Guy, compositore ed improvvisatore che continua ad affascinare per via di alcune, particolarmente riuscite direzioni date al contrabbasso: compo-improv sistemata a diversi livelli, teatralità, scenografie in situ sono alcune delle strade aperte dal musicista inglese;
d) sviluppare la storicità, i caratteri essenziali ed una parte considerevole del percorso discografico di Barre Phillips (i suoi solo e la parte discografica all'Ecm), un top della cantabilità dello strumento;
e) soffermarmi sulle valenze tecniche ed ambientali di Mark Dresser, incontrato in Italia durante una vibrante escursione compiuta in alcuni posti topici della nostra penisola (lo spunto è Modicana, suo solo pubblicato lo scorso anno per la Nobusiness R.).
Per compiere questo faticoso lavoro di spunta e raccordo mi sono avvalso della collaborazione eccellente di esperti del settore, ossia di:
1) Daniel Barbiero, che si è occupato di Roccato e Scodanibbio,
2) Pierpaolo Martino, che per Percorsi Musicali ha scritto un rinnovato saggio sull'arte di Barry Guy, un resoconto completo delle sue propensioni teatrali e orchestrali;
3) Dario Calderone in persona, che con il suo prezioso aiuto mi ha consentito di accedere ad ulteriori informazioni e materiali.
Ringrazio calorosamente i miei interlocutori per la disponibilità che mi hanno dimostrato!!.
Bene, finiti i preamboli entriamo nella ragnatela dei racconti. Spero che il simposio sia di vostro gradimento.
Bene, finiti i preamboli entriamo nella ragnatela dei racconti. Spero che il simposio sia di vostro gradimento.
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Se tra i contrabbassisti è abbastanza facile trovare ecletticità, ossia rilevare una divisione del lavoro in cui si colpiscono tecniche e generi differenti come frutto del programma formativo compiuto, molto più raro è trovare quelli che hanno il talento e il coraggio di travalicare i concetti, riuscire a guadagnarsi la stima dei compositori più intransigenti, e portare la musica e le tecniche ad un più ampio livello di risultati e di comprensione. Dario Calderone fa parte di questa rarità: allievo tra i migliori di Scodanibbio, Calderone ha intrapreso un’ampia gamma di attività che si indirizza alla:
a) composizione contemporanea (l’omaggio al suo maestro, contenuto in “Voyage that never ends”, è una composizione che tra le sue mani è diventata una delle migliori versioni del pezzo);
b) all'improvvisazione e una sua rigorosa interpretazione (gli ultimi sviluppi del contrabbassista lo vedono dirigersi su una particolare configurazione di idee di un quintetto diretto da Roland Dahinden su un astratto, artistico contatto con Charlie Parker);
c) agli strumenti moderni dell’elettronica (loops, ritardi digitali, compresenza audio video).
Sebbene ognuno dei suoi progetti meriterebbe un’attenzione specifica per la serietà con cui viene delimitata la materia, in questa sede, tuttavia, mi soffermerò solo su alcuni di essi, specialmente per rimarcare le indagini che interessano il pensiero recente del contrabbassista. Quali? Da una parte Calderone ha chiamato in causa principi musicali e filosofici dimenticati da gran parte della composizione degli ultimi decenni: il riferimento è al cd “Bass Works” (per la HatHut R.), che il contrabbassista ha dedicato a James Tenney, compositore americano che scrisse alcuni pezzi memorabili per contrabbasso, in un periodo (tra i sessanta e gli ottanta) in cui l’interesse per le forme gestaltiche della musica sembrava aprire nuovi orizzonti. La grandezza di Tenney sta nel fatto che egli propose un paio di teorie imparentate con l’armonia e con la percezione della musica: mentre con la prima allargò il raggio di azione del pensiero di Cage, con la seconda creò un vero e proprio progetto nuovo per l’ascolto. Con una terminologia piuttosto succinta e semplicistica, si potrebbe dire che Tenney tendeva a ribaltare il consueto paradigma per cui per ottenere un risultato musicale fosse necessario partire da una forma e da un metodo di composizione; Tenney propose di costruire un approccio partendo dal risultato, ossia dalla percezione attenta ed inquadrata del clang (dei suoni o loro combinazioni), un passo decisivo per proporre quell’auspicabile salto di qualità dell’ascoltatore, tutto rivolto nel comporre una fenomenologia reale dell’ascolto. Una finalità del pensiero di Tenney era quella di compiere ulteriori ricerche intorno ad overtoni e micro tonalità, assorbendone le possibilità armoniche in un tessuto musicale che ne proponeva una versione non convenzionale.
In Bass Works Calderone riprende Beast, uno dei suoi più famosi pezzi per contrabbasso solo (all’epoca dedicato al compianto Buell Neidlinger), mette in sesto due versioni di (night), e con la collaborazione di Francesco Dillon (violoncello) e William Lane (viola) dà la sua premiere di Glissade, una splendida composizione che per motivi tecnici (la scordatura continua del contrabbasso) non veniva quasi mai eseguita. Con la cura giusta sul versante della registrazione, Calderone aumenta la potenza psicologica della musica di Tenney, facendo emergere con una facilità impressionante quel carico di rivelazioni che la musica dell’americano faceva intravedere: Beast si regge sulla Teoria di Fibonacci ricomposta su onde che seguono il variabile incedere di due frequenze dello strumento, tali da poter intercettare battimenti e consonanze impreviste. Sostiene un'idea molto battuta nei settanta del secolo scorso, ossia quella della ricorsività di patterns stabiliti in base a regole matematiche: i frattali, le serie e molte delle teorie delle numerazioni matematiche aprivano ad un nuovo mondo di relazioni musicali, dove i compositori (non senza uno spessore filosofico) filtravano l'aritmetica con una possibile meditazione sonica.
Le due versioni di (night) si sostanziano invece di un glissando diversamente interpretato nelle sue caratteristiche di suono: conscio della libertà concessa da Tenney, Calderone inventa una prima spettrale, flautata, con una microfonazione tesa a cogliere tutti i dettagli, soprattutto quei parziali che di fatto collocano Tenney nei proto-spettralisti; la seconda versione, invece, è un ciclo a descrescere, partendo da un caricamento del suono fino al suo smorzamento totale.
Per cio che concerne Glissade, invece, siamo di fronte ad una composizione a 5 movimenti, che distribuisce il magico incrocio delle microtonalità in un trio di strumenti ad alta concentrazione di overtoni: è un viaggio dove succedono molte cose, dove tutto è annotato, ma il suono restituisce decisamente un prodotto superiore, come se quelle indicazioni in partitura si fossero staccate dal foglio e allungate nell’aria. Coadiuvato da un sistema di ritardo analogico, questa prima registrazione della composizione è eccellente, perché emotivamente scuote gli imperi di una certo approccio agli strumenti: sentite cosa succede in Array (a’sysing) per rendervi conto del potere subliminale della musica, tre tiranti che velocemente vi trasportano in altra dimensione. In tutti e cinque i movimenti si aprono orizzonti magnetici, che pur non essendo figli del virtuosismo che abbiamo convenzionalmente imparato a riconoscere nelle forme occidentali, sono in grado di rappresentare a perfezione le harmonics perceptions di Tenney. Le sensazioni create da Calderone e dai suoi due partners fanno pensare a quella fitta ricerca che guidava gli avanguardisti americani nello sfidare le leggi del tempo: in loro c’era il riconoscimento di una musica che provocava cambiamenti sul piano della psicologia, dell’acustica e della fisica, sebbene teoricamente esse non avessero mai voglia di dare nuove informazioni su presunti mondi metafisici o spirituali guidati dai suoni.
John Cage è un riferimento subdolo che Calderone insinua in Ursa Minoris, la composizione per contrabbasso, elettronica real time e video proiezione, del compositore italo-argentino Claudio F. Baroni: lavorando nella sfera celestiale dell’Atlantis di Cage, Ursa Minoris è anch’essa una sorta di trascrizione dei patterns stellari trasfusi in parametri musicali; vengono utilizzate diverse tecniche non convenzionali (ponte, spiccato, glissando, jete ricche, etc.), tuttavia è nuova la tecnica utilizzata per colpire la corda dello strumento nel primo movimento (una sorta di scolpitura metallica effettuata con la rana dell’arco); si lavora molto sui loops che, una volta creati, si immergono ripetutamente nel costrutto sonoro. L’effetto è molto meno destabilizzante di quanto si pensi (la sostanza metallica non porta esteticamente ed immediatamente alle stelle) e contribuisce al pensiero di corpi “in rilievo” nel firmamento, che si muovono intercettando musicalmente ciò che si potrebbe inseguire con la vista o il sentimento: almeno nel movimento che siamo in grado di ascoltare dal video youtube, sembrano siano le scie le vere protagoniste. (vedi qui le note di Calderone su tutto il pezzo).
Per il contrabbasso la posizione dell'elettronica non è indifferente: gli sviluppi della tecnologia hanno reso sempre più interessanti certe esplorazioni, soprattutto per via dei nuovi confini che si creano con la creazione musicale intesa nel senso comune; è già disponibile un ampio ventaglio di nuove composizioni che utilizzano a vario titolo il live electronics, i sensori di movimento applicabili all'esecutore, le modificazioni genetiche del timbro ottenute con laptop o altri supporti analogici, anche se non c'è ancora una personalità forte del contrabbasso che si sia preoccupato di ordinare e sistemare in una cellula di studi a sé stante, i molti contributi sull'argomento.
Per il contrabbasso la posizione dell'elettronica non è indifferente: gli sviluppi della tecnologia hanno reso sempre più interessanti certe esplorazioni, soprattutto per via dei nuovi confini che si creano con la creazione musicale intesa nel senso comune; è già disponibile un ampio ventaglio di nuove composizioni che utilizzano a vario titolo il live electronics, i sensori di movimento applicabili all'esecutore, le modificazioni genetiche del timbro ottenute con laptop o altri supporti analogici, anche se non c'è ancora una personalità forte del contrabbasso che si sia preoccupato di ordinare e sistemare in una cellula di studi a sé stante, i molti contributi sull'argomento.

Se ascoltato in una situazione acustica eccellente (così come avviene nella cornice della Sala d’Armi del Sestiere Castello veneziano) il contrabbasso è in grado di far scattare delle sensazioni aurali speciali, di poter testimoniare la valenza di un tema e il desiderio del compositore di vederla finalizzata; allo scopo sono necessarie un paio di cose fondamentali, ossia la qualità di chi esegue, che deve comprendere totalmente la struttura e le finalità musicali del pezzo, ed un’amplificazione degna di poter vivere e competere alla pari con i suoni. Questo succede esattamente in Ur, dove l’esplorazione al contrabbasso solo avviene cercando anche di coinvolgere l’ascoltatore in una relazione di vicinanza fisica con il suono: sebbene la partitura non ne faccia menzione, nell'esecuzione veneziana Calderone spinge su una inedita spazializzazione dei suoni che insisterebbe sul concetto dimensionale della musica nell'ascolto frontale; l’animazione concreta del suono è anche animazione fattibile del tema, poiché non c’è dubbio che per poter giungere auralmente ai Minotauri, ai riti antichi, alle pulsazioni danzabili che presentano il conto di una lunga storia, c’è bisogno che l’amplificazione e la riesumazione dei dettagli sia perfettamente funzionale. E’ vero che molti amici contrabbassisti potrebbero rivendicare le loro scoperte e una fisiologica pletora di risultati vincenti, tuttavia è vero anche che Ur getta un àncora sui procedimenti, sulle capacità trasformiste dello strumento, qualcosa su cui il domani proclamerà il suo verdetto, nelle more di una continuità della pratica e della verifica delle formulazioni: non mi pare che ci siano in giro compositori competenti come Netti, che si impadroniscono della vita e della fisicità degli strumenti su cui lavorano, e soprattutto ci sono pochi esecutori compenetrati come Calderone, in grado di produrre l’equilibrio necessario per condividere le potenzialità della composizione. C'è una frase, incredibilmente centrata nel significato, che Netti ha usato per descrivere il rapporto con Calderone in sede di presentazione del pezzo, poco prima della sua esecuzione "...la scrittura è per me arrivare a costruire un'astronave, un'astronave perfetta per quanto sono capace di fare, ma la missione la compie lui...".
Direi che, più che raccontare, Ur andrebbe immediatamente ascoltato, e a dir il vero io stesso ho cercato la stessa immedesimazione che Calderone ha dichiarato di intraprendere per entrare nel mondo di Netti; l’esperienza totale va frazionata nelle cinque parti stabilite (tre come U, due come r), poiché in ognuna di esse c’è un cambio di prospettiva; però fidandomi di una personale codifica, potrei essere tentato di classificare le cinque fasi in questo modo: iniziazione-procedimento-transizione-esortazione-terminazione.
Direi che, più che raccontare, Ur andrebbe immediatamente ascoltato, e a dir il vero io stesso ho cercato la stessa immedesimazione che Calderone ha dichiarato di intraprendere per entrare nel mondo di Netti; l’esperienza totale va frazionata nelle cinque parti stabilite (tre come U, due come r), poiché in ognuna di esse c’è un cambio di prospettiva; però fidandomi di una personale codifica, potrei essere tentato di classificare le cinque fasi in questo modo: iniziazione-procedimento-transizione-esortazione-terminazione.
I primi 17 minuti di Ur increspano il cervello con una pletora di armonici che fuoriescono dalla gestione della tensione dell’arco, un incontro tra modalità acute e gravi (Netti parla di labirinto di echi), qualcosa che sollecita circolarità di suoni ed una presenza che reclama una dignità cognitiva; ma è un terreno che acquista nuova caratterizzazione nei 10 minuti della seconda parte, dove ci si sposta su una maggiore intensità delle articolazioni e delle velocizzazioni armoniche, in una situazione in cui l’orecchio ha cominciato ad abituarsi/adattarsi alla situazione sonora e quindi può cominciare a rappresentare auralmente un’entità: stare “dentro” il suono, questo è l'obiettivo che si deve percorrere, e non si può fare a meno di restare favorevolmente impressionati dall'abbrivio variabile che si avverte in tutta la fase, soprattutto quando ad un certo punto la partitura prevede che le due mani si avvicinino nella zona inferiore di congiuntura della cordiera, provvedendo all’emissione di suoni eccezionalmente lucidi e plasmatici. La terza parte investe sulle sincopi che hanno probabilmente natura transitiva. Difatti, la prima parte di r, si consolida sul pizzicato e sul potere vibratorio delle corde, dove le tecniche e le velocità di esecuzione sono in grado di costruire un’implicita fase ritmica che sa tanto di danza esortativa; l’arco ricompare nella seconda parte di r, ma ha la funzione di assecondare il moto vibratorio portante e perciò richiede che l’arco non debba tirare ma stare tra il colpo percussivo e la leggera pressione sulla cordiera, elementi che Calderone porta a termine con naturalezza, limitando fisicamente il sensibile sforzo richiesto dalla successione ordinata delle operazioni, distribuito genericamente su tutta la lunghezza della composizione.
Ettore Garzia
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Alisei
& Stefano Scodanibbio’s Poetics of the Double Bass
1
In
a recent piece I suggested that the contemporary equivalent or near-equivalent
of the old Common Practice of functional harmony just might be found in the use
of extended instrumental techniques, which have become pervasive in much new
music both composed and improvised. The expansion of what it is possible to do
on orchestral instrument has had a decisive influence not only on performance,
as would be expected, but also on the universe of possibilities open to a
composer. The double bassist Stefano Scodanibbio (1956-2012) was both a
consummate performer and a challenging composer; his music represents an
important contribution to this newer common practice.
Extended
technique for Scodanibbio was more than a method or even a methodology. It was
instead something akin to what painter Robert Motherwell called an original
creative principle: a fundamental orientation or way of situating oneself
vis-à-vis one’s materials and creative environment, a ground from which those
materials and that environment could be grasped as concrete, creative
possibilities and projected forward into specific works to be realized as one’s
own. For Scodanibbio, the development and extension of the technical resources
available to the double bass was his way of situating himself within the larger
field of instrumental music.Within this larger field, Scodanibbio didn’t simply
collect and collate the technical possibilities open to his instrument; like an
uncanny explorer who calls a territory into being through the very act of
mapping it, he was able to bring to fruition sounds and gestures lying latent
in the double bass. They may have always already been there waiting to be
discovered and coaxed out, but someone had to do the discovering and coaxing.
Of
a piece with his technical innovations was Scodinabbio’s construction of a
poetics. This definition and contextualization of procedure served to
explicate, in sound if not in words, the place his technical methods had within
his practice and the place his practice had within the field of performance and
composition. Scodanibbio’s poetics, embodied in many of the works he wrote for
double bass and other strings, put the making of the work at the center of its
meaning, but—and this is an important qualification—method didn’t exhaust the
meaning of the work. There was an artistry to his practice that prevented his
music from being a mere exercise in what could be done. The exquisite
technique, the carefully formulated vocabulary, the fortuitous ways he linked
together gestures and sounds—all of this was done with affective force. Even
so, his work pushed to the foreground the technical advances made for the
instrument and engaged, at least implicitly, in a historical and historicizing
dialogue with the progress of double bass technique in the modern period that
began, roughly, in the 1960s and was honed to a fine edge in Italy by Fernando
Grillo, one of Scodanibbio’s teachers.
A
good example of Scodanibbio’s poetics at work is his refiguration for double
bass of Luciano Berio’s Sequenza XIV for cello, which Scodanibbio undertook at
Berio’s request. Berio asked Scodanibbio to “reinvent” the Sequenza in the
bassist’s own language and that he did; the resulting Sequenza XIVb retains a
family resemblance to its model but is unmistakably Scodanibbio’s, featuring as
it does some of his characteristic techniques such as the seamless alteration
of harmonics and ordinary tones, the rapid flamenco-like harp pizzicato, and
chords constructed of overtones. Beneath its—admittedly stunning—surface,
Sequenza XIVb stands as a fully-formulated poetics: a reflection on materials,
methods and their possibilities through which these elements are raised to a
kind of self-awareness and are enabled to speak their own musical truths.
2

Like many of Scodanibbio’s works, Alisei, composed in 1986, is an essay in auto-counterpoint. A hammer-on left hand sets down a foundation of deep tones and a slow, simultaneous melodic overlay of harmonics; both layers ride on a gently rocking wave of explicit and implicit chordal movement. The diptych Due pezzi brillanti (1985), another solo work, is one of the first of Scodanibbio’s that Roccato began exploring. As with Alisei, it is a work built around sound strata in sharply different registers, again divided between harmonics and ordinary tones.
The
duet Da una certa nebbia (2002), bearing the wryly Feldmanesque subtitle “for
double bass and another double bass,” further develops the layered timbral
counterpoint of the earlier pieces. It does this through an effective division
of voices: a first bass playing an arco part mostly made up of surging and
diminishing harmonics, and a “veiling” second bass providing a sparse
scattering of plucked notes. It’s a beautiful, meditatively-paced piece that opposes
the slow, bowed crescendi of the first bass with the brusque pizzicato
interventions of the second bass. On the sharply outlined winter landscape that
is this evocative performance Roccato is joined by Giacomo Piermatti.
The
centerpiece of the recording is Otteto for eight double basses, in a tour de
force performance by Ludus Gravis. Otteto was composed in 2010-2011 and
represents a kind of synopsis of Scodanibbio’s work for and with the double
bass. Its late date and the circumstances of its composition give it a
valedictory air, but one in a celebratory, rather than an elegiac, key.
Although the piece is very much Scodanibbio’s self-portrait as an instrumentalist,
it was written with the substantial collaboration of Roccato, who helped map
out the basic contours and began to develop its realization with Ludus Gravis.
The work, which is represented here in its premiere recording, was first
performed live in its entirety in October 2012, only a few months after
Scodanibbio’s death from ALS in January.
The
thirty-minute-long work is nothing less than an encyclopedic presentation of Scodanibbio’s
poetics, a synthesis and summary of his distinctive voice. All of his signature
sounds are here, amplified and multiplied when fitted over an eight piece
ensemble and traversing a substantial part of what the instrument is currently
capable of. Otteto is a profoundly textural work woven of a rich repertoire of
gestures—natural and artificial harmonics, spiccato and pressure bowing,
flageolet and ordinary pizzicato, glissandi and many others--played
individually or in pairs and threes, phased or in unison. The timbral variety
of the piece is such that the homogeneity of the ensemble is belied in a
kaleidoscope of sound color. Its effectiveness as a work depends on a high
degree of precision and coordination, which Ludis Gravis, with the aid of
conductor Tonino Battista, amply supplies.
3

At
the heart of this effect is the expressive contrast between the wispy,
ephemeral presence of the harmonics and the fuller-bodied stolidity of the ordinary
tones. Compared to the latter, the former have a certain inexactness or
inconsistency built into them; unlike ordinary tones, which are stopped at a
precise point on the string, harmonics have well-defined sonic centers that
shade off into more tenuous-sounding edges; they are highly sensitive to slight
variations in the placement of the finger on the string as well as to nuances
in bow or finger weight, angle of attack, and so on. This introduces an element
of chance into the sound aggregates of harmonic-ordinary tone combinations; the
sound quality of the harmonic is at least potentially variable, and this
variability colors the way we hear not only the aggregated sound, but the
ordinary tone as well. The result isn’t just a simple contrast between harmonic
and ordinary tone, but a spread of differences ranged across a spectrum of
subtle tinctures. The difference in presence and timbre between the ordinary
tone and the harmonic can be the difference between closeness and distance,
robust and brittle, the sturdy body and the shadow. Scodanibbio’s artistry, so
well realized by Roccato and Ludus Gravis, turns out to be an artistryat once of
solid marble and porous mist: one might say, of the emergence of music “da una
certa nebbia.”
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Barry Guy.
Il contrabbasso tra vita, scrittura e
teatro
di Pierpaolo Martino

Living
invitò Guy a seguire i corsi di composizione di Stanley Glasser presso il
Goldsmiths’s college – in cui venivano tra l’altro analizzati brani di
Beethoven, Stravinsky, Stockhausen e Ligeti. A fine corso, fu chiesto a Guy di
scrivere un brano, ed essendo egli già profondamente attratto
dall’improvvisazione si trovò a comporre un brano, Perceptions 1966 che includeva delle cadenze improvvisate per
trombone e sax. Dovendo avvalersi di qualcuno che suonasse il contralto, gli fu
suggerito il nome di Trevor Watts, che con Guy riuscì a mettersi in contatto grazie
a Paul Rutherford. Dopo aver eseguito il brano i due chiesero a Guy di unirsi
allo Spontaneous Music Ensemble. Guy iniziò così a frequentare il Little
Theatre Club a Covent Garden quartier generale del SME e al tempo stesso a
lavorare presso la nuova sede del Ronnie Scott’s Club in Frith in qualità di
componente della sezione ritmica residente.
Lo
Spontaneous Music Ensemble era guidato dal batterista John Stevens e includeva
oltre a Watts anche musicisti del calibro di Evan Parker e Kenny Wheeler. Fu
qui che Guy si formò come contrabbassista applicando al basso idee che provenivano,
spesso, da altri strumentisti con cui si trovava ad interagire ma anche facendo
ricorso in maniera libera e non prescritta a tecniche che egli stesso in quel
periodo stava studiando nei corsi di contrabbasso della Guildhall, quale ad
esempio l’uso del capotasto. L’improv conferì
in sostanza sicurezza e determinazione al giovane Guy, il cui bassismo sin da
questa fase si caratterizzerà per la grande urgenza
espressiva e per l’alta densità del materiale messo in scena, elemento che Guy attribuisce all'essere approdato
alla musica relativamente tardi. In effetti, per un lungo periodo, ossia dopo
aver lasciato la scuola, egli si troverà a lavorare in qualità di disegnatore
presso uno studio di architetti londinesi e a dedicare il tempo rimanente alla musica.
Come si vedrà, sebbene Guy deciderà di lasciare il lavoro da architetto, il suo
lavoro musicale si caratterizzerà per una poetica dello spazio, figlia dei suoi
studi architettonici.
Guy
fu inoltre tra i membri fondatori (nel 1970) dell'improv trio – politicamente molto impegnato – Iskra 1903 di cui
facevano parte in un primo momento Paul Rutherford e Derek Bailey alla chitarra
sostituito in un secondo momento da Philipp Wachsmann al violino. Questo trio
offrì a Guy la possibilità di approfondire un approccio per così dire più
cameristico all’improv, essendo appunto un trio senza batteria, nonché di
lavorare molto su sonorità prodotte da strumenti a corda e in particolare dal violino (strumento suonato dalla sua attuale moglie);
questo influenzò parecchio anche il suo modo di comporre, erano del resto questi
gli anni in cui Guy mise su la leggendaria London Jazz Composers
Orchestra.
La
LJCO era in sostanza un ensemble molto ampio che includeva vari compagni di
viaggio dello stesso Guy tra cui, in momenti alterni, Paul Rutherford, Tony
Oxley, Howard Riley, Kenny Wheeler, John Stevens, Trevor Watts, Paul Lytton. La
LJCO divenne per Guy un laboratorio in cui misurarsi non solo con
l’improvvisazione ma anche e soprattutto con la composizione che in questo
contesto rappresentava per Guy qualcosa a cui pensare non in termini
dittatoriali ma in termini di una sorta di “social framework” per i musicisti.
Nella carriera di Guy improvvisazione e composizione sembrano per certi versi
essere due sfere separate che ruotano intorno al contrabbasso come sorta di
perno centrale, due mondi, “due termini con linguaggi diversi ed aperti a sfide
diverse, e tuttavia entrambi legati a livello personale a processi di
comprensione e comunicazione”. Sono queste dimensioni nel loro interagire a
definire i diversi momenti o fasi della LJCO.

Nei
primi anni Novanta Guy avvierà una felice collaborazione con la pianista
americana Marilyn Crispell, i due si esibiranno spesso in trio con Gerry
Hemingway alla batteria, donandosi in concerti intensissimi e dai ritmi
serratissimi spesso in ambito americano; celebre in tal senso il live alla
Knitting Factory del 1996. Un bel cd che testimonia il lavoro di questo trio è Cascades del 1995 che documenta un
concerto tenutosi a Vancouver nel 1993 e in cui il drumming più “continuo” e per
certi versi jazzistico di Hemingway differenzierà parecchio il sound del trio
da quello più spigoloso dei lavori con Lytton. Negli anni 2000, tuttavia,
Crispell e Guy torneranno ad incidere insieme proprio in trio con Paul Lytton
alla batteria, registrando dei dischi notevoli, pubblicati da Intakt, quali Odissey (del 1999 di cui si parlerà più
avanti) e Ithaca del 2004.
Il
contributo per orchestra di Guy ha assunto, invece, negli ultimi due decenni la
fisionomia più agile e immediata ma non per questo meno coinvolgente – rispetto
a quella della LJCO – della Barry Guy New Orchestra, all’interno della quale
ritroviamo sia Parker che la Crispell.
L’idea viene suggerita da Patrik Landoltt, il quale si accorse di quanto
frustrante fosse allora per Guy non riuscire
ad organizzare concerti per la LJCO. La resistenza iniziale di Guy
all’idea di un organico più piccolo con risorse sonore apparentemente limitate
venne superata nel passaggio stesso dall’idea astratta alla dimensione reale
dell’ascolto dell’unicità e irripetibilità della voce di ogni singolo
musicista. Il primo lavoro dell’orchestra venne pubblicato sempre da Intakt
nel 2000 con il titolo Inscape-Tableaux.
Un lavoro celebratissimo e che offre, in realtà, una paletta sonora
estremamente ampia, centrale diviene in questo senso la scelta di Guy di
mettere insieme musicisti che avevano suonato insieme in combinazioni
diverse Guy e Parker, Parker e Lytton,
Crispell, Guy e Lytton, Guy e Gustaffson, etc, insomma un’orchestra fatta di piccole orchestre, un intreccio complesso
di poetiche sonore e gesti musicali. Un dialogo tra dialoghi.
I
lavori a cui si è fatto riferimento sono stati pubblicati prevalentemente da
Intakt e tuttavia molte delle produzioni più interessanti di Guy vedono la luce
per Maya Recordings, una piccola etichetta indipendente fondata da Maya
Homburger e Guy stesso. Si tratta di
un’etichetta nutrita da una doppia anima, una legata alla musica barocca di cui
la Homburger è una specialista e l’altra legata all’improv e alla sperimentazione. Uno
dei primi lavori a esseri pubblicati da Maya Recordings è Arcus un progetto per due contrabbassi, in cui oltre allo stesso
Guy ritroviamo Barre Phillips. Quest’ultimo - oltre ad essere stato il primo ad
incidere un disco per solo contrabbasso nel lontano 1968 intitolato Journal Violone - rappresenta tutt’oggi
una figura fondamentale nel panorama dell’improv europea e americana. Un grande
improvvisatore dotato di una tecnica straordinaria, componente di gruppi
storici dell’improv e dell’avanguardia come The Trio, celebre formazione con
John Surman e Stu Martin attiva a
cavallo tra anni sessanta e settanta,
nonché altri ensemble quali il trio con Evan Parker e Paul Bley e quello con i Maneri.
Nel cd ritroviamo cose molto diverse, si va dal ricchissimo episodio iniziale
intitolato “Prophesies” - in cui entrambi i due musicisti suonano l’arco e in
cui alla dimensione aerea di Guy sembra contrapporsi quella più terrena di
Phillips – alle velocissime figure in pizzicato eseguite da entrambi nella brevissima
“Wampho”. Se per certi versi Phillips ha rappresentato un riferimento, una
sorta di maestro per Guy nell’universo improvvisativo, più recentemente il
bassista inglese troverà un punto di riferimento nel compianto Stefano
Scodanibbio per il quale tra l’altro comporrà nel 2002 un brano per due
contrabbassi intitolato Anaklasis, la
cui partitura si caratterizza, tra le altre cose per un'accuratissima
trascrizione di complesse tecniche di preparazione dello strumento. Anche nelle
produzioni per due contrabbassi ritroviamo dunque la doppia anima di Guy, ossia
quella dell’improvvisatore, prevalente nel lavoro con Phillips, e quella del
compositore, molto interessata nel caso del lavoro con Scodanibbio ad una
scrittura per così dire più contemporanea; non bisogna del resto dimenticare
che Guy non ha mai smesso di lavorare per orchestra o per piccoli ensemble in
vari contesti di musica “colta” o classica che dir si voglia; Guy è un contrabbassista
classico preparatissimo formatosi, come si è accennato, alla Guild Hall
School of Music. È del 2014 invece un
lavoro per 11 contrabbassi intitolato Thinking
of Stefano Scodanibbio, in cui è coinvolto lo stesso Guy, accanto Mark
Dresser, Joelle Leandre e altri, dedicato ancora a Scodanibbio scomparso nel
2008.

È per Maya Recordings che Guy pubblica invece i
suoi due lavori per solo contrabbasso: Fizzles
del 1993 e Symmetries del 2002 -
anche se, va detto, il primo lavoro in solo di Guy, Statements V-XI, risale al 1976 e venne pubblicato dalla Incus. Fizzles rappresenta un vero e proprio
concept album su Beckett; l'album include brani per contrabbasso e chamber bass (termine con cui in inglese
si indica il contrabbasso da camera, uno strumento diffuso soprattutto nell’800
accordato per quinte, insomma una sorta di
violoncello con un’estensione più grave) e viene registrato nel 1991 in
una chiesa in Svizzera, la KircheBlumenstein. Ed in effetti qui lo spazio di
enunciazione sonora diventa un fattore fondamentale, una sorta di strumento che
non solo amplifica ma per così dire interroga e
al tempo stesso risponde alla musica di Guy.
La
componente dialogica è determinante nella concezione stessa di alcuni episodi
del lavoro; il titolo dell’album fa riferimento infatti ad un’opera di Beckett, Fizzles, una raccolta di otto pezzi in
prosa estremamente complessi e ricchi di suggestioni. Sebbene si tratti un
lavoro in prosa Guy sembra rispondervi in senso “drammatico” attraverso una
riscrittura in cui il contrabbasso si fa teatro; i gesti bassistici diventano
attori all’interno di un play dell’assurdo e nel loro interagire ne vengono a
costituire gli atti. Uno dei brani beckettiani del lavoro è “Still” termine
traducibile in italiano come “Immobile”; in quello che è il settimo fizzle di Beckett ci ritroviamo in una
stanza con un uomo seduto su una poltrona, ci sono poi una finestra – immagine
che Beckett aveva già introdotto nel fallimento IV – e il sole che sta per
lasciare spazio al rosso del tramonto. Ma l’uomo è completamente immobile. Si
tratta di un’immagine grottesca eppure fortemente drammatica che Beckett
costruisce per effetto cumulativo, con una prosa molto serrata fatta di
frammenti molto brevi che si chiudono sempre su un punto e che Guy traduce in
un brano piuttosto lirico in cui si alternano l’immobilità di certe figure (gli
armonici iniziali reiterati, eseguiti con il pedale del volume) con il forte,
violento dinamismo dello sviluppo improvvisativo, e in cui la melodia principale sembra ancora
una volta rimandare all’interesse di Guy per la musica barocca.
Symmetries del 2002 si
caratterizza invece per la grande varietà di ambienti, immagini e spazi sonori
proposti, qui il basso di Guy diventa cassa di risonanza complessa e in
divenire di una musica che non è mai se stessa ma si pone e si propone come
sempre aperta ed eccedente. Qui Guy utilizza quello che ormai è divenuto il suo
strumento di elezione, ossia un contrabbasso a 5 corde (con il Do alto)
realizzato dal liutaio londinese Roger Dawson. Ovviamente qui il bassista fa
ricorso alle sue straordinarie doti tecniche e alla sua invenzione timbrica –
spesso frutto di accuratissime preparazioni con bacchette, ferri da cucito etc
– nonché al suo sapiente uso del pedale del volume (che sarà ripreso anche da
Joelle Leandre) nonché di sovraincisioni, per proporre episodi molto densi e coinvolgenti che scandiscono il
complesso percorso di simmetrie in cui si articola il lavoro. Una traccia molto
significativa è senz’altro ‘Quiescence (for KB e RW)’ in cui Guy alterna
melodie e tessiture d’accordi dal sapore barocco a complessi e velocissimi
passaggi dissonanti e fuori tonalità eseguiti in pizzicato su un bordone di
arco pre-recorded. La terza traccia del cd rappresenta invece un omaggio
all’amato Charles Mingus, qui Guy fa l’operazione contraria ossia esegue il
tema con l’arco con un tocco molto lirico e un vibrato sapiente su una traccia
pre-recorded in cui suona (sempre con l’arco) armonici molto acuti fuori
tonalità. L’episodio tuttavia più intenso e articolato di Symmetries , nonché uno dei brani più interessanti e intriganti
dell’intero canone musicale di Guy è senz’altro la tredicesima traccia
intitolata ‘Odissey’.

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Barre Phillips: caratteri salienti e discografia in solo e per Ecm R.
Barre Phillips (1932) è un “originale” nella storia del contrabbasso. Negli anni della sua prima gioventù, quando era poco più che ventenne, si cibò del jazz che imperava in America, con figure innovative che stavano dando il loro contributo nella fase bebop del genere; i ventenni come Phillips non potevano fare altro che ammirare le soluzioni di artisti come Charlie Mingus, Scott La Faro o Charlie Haden; il contrabbasso si stava aprendo all’enfasi solista, sebbene camminasse con molta parsimonia di fianco alla funzione ritmica da tempo riconosciutagli. Gli stimoli arrivavano anche dalla musica classica, dove contrabbassisti come Turetsky o Druckman avevano avuto il plauso di compositori che, più o meno consciamente, avvicinavano il mondo della composizione con quella dell’improvvisazione libera (per ciò che concerne gli Stati Uniti si pensi a Cage o alla Oliveros). In America contrabbassisti come Barre Phillips o Dave Holland erano favorevolmente proiettati verso le intersezioni, con uno sguardo sull’Europa e su quello che stava accadendo anche lì; Phillips fu uno degli storici contrabbassisti che partecipò ad una delle prime sessioni ufficiali di nascita dell’improvvisazione libera, quando nel ’65 suonò il contrabbasso nella filarmonica di New York condotta da Bernstein; il pezzo era Improvisation for Orchestra & Jazz soloists di Larry Austin e Phillips comparse nella registrazione per la Columbia al posto di Richard Davis (il contrabbassista di Dolphy, Andrew Hill e del Van Morrison di Astral Weeks), che condivideva i concerti giovanili di Bernstein; tuttavia l’America non fu recettiva sul punto quanto gli europei e Phillips lo capì subito decidendo di vivere in Francia e di suonare spesso con gli improvvisatori inglesi. Nella sua lunga marcia dedicata alla musica, Phillips ha creato un suo idioma, ossia quello di una forma sperimentale di espressione, affine alla consapevolezza della natura umana, alle entità che ci circondano quotidianamente e ad una tipologia di cantabilità ottenuta lavorando tre ottave sotto l’intonazione normale. Barre raccoglie le vibrazioni del suo strumento, le conduce a buon sistema, e lascia anche un effetto armonico, quello che ci dà la possibilità di riconoscerlo tra i tanti. Sotto quest’ultimo punto di vista Phillips è differente da un Charlie Haden, è meno esplicito, più concentrato nel creare simbiosi aurali in cui le armonie o melodie si stabiliscono sotto il travestimento compositivo.
Tre le cose essenziali da dire sul musicista:
1) Phillips è uno degli artisti di rango della Ecm. R.: è presso l’etichetta tedesca che ha prodotto almeno l’80% del suo pensiero e il posto dove si rintracciano molti dei suoi capolavori artistici;
2) il modo migliore per rintracciare il suo stile è quello delle prove solistiche;
3) c’è una sensibile produzione discografica che accompagna la carriera di Barre: si tratta anche di direzioni particolari, registrazioni che si inoltrano (specie dai novanta in poi) nell’allargamento delle formazioni, nella scrittura per teatro e cinema e nelle collaborazioni vis a vis con molte celebrità dell’improvvisazione.
Dal momento che questo articolo nasce come spunto reattivo della sua ultima pubblicazione per Ecm R., mi sembra che questa sia l’occasione giusta per ripercorrere quantomeno i primi due punti del mio discorso.

Barre vuole subito sperimentare con un altro contrabbasso e trova conforto in Dave Holland: con lui registra un altro lavoro fuori dai tempi (Music from two basses, Ecm 1971), in cui i due Improvisation pieces conducono a simulazioni tipo sradicamento di chiodi o ad abrasioni varie, tuttavia tutto ciò che non risulta intonato acquista una dinamicità e una forza espressiva unica. Sentire Beans significa essere proiettati in una zona liminale del ricordo di una festa, mentre il canto diviene di nuovo esplicito nella linea melodica profusa in Maybe I can sing it for you; una morsa dantesca costruisce il terreno sonoro di Just a whisper. Mentre per Holland fu un esperimento unico, che non ripeterà più perché interessato a porsi nella linea aperta da Mingus, Phillips manterrà la sua impostazione, quella che guarda a Turetsky e alle sue accondiscendenze classiche.
E’ opportuno sottolineare che in questi album di jazz non se ne vede ombra. Bisognerà aspettare a For all it is (Japo 1973), dove Barre passa a 4 contrabbassi (Guy, Jenny-Clarke, Danielsson): gli umori sono diversi, poiché oltre ad accenti melodici jazz, si avvertono toni muscolari e passaggi eterei confinanti in uno strato classico; si sente la materialità degli strumenti e la pienezza delle condensazioni estensive. For all it is ha un sapore agrodolce, che immortala una session di gruppo che mette in linea tratti teoricamente inarmonici, dialogici e tratti sensitivi, quasi in preda ad una ricerca misericordiosa. Comuqne si fa fatica a capire di chi sono gli interventi.

Journal violone II (Ecm 1980), con Surman e la cantante Aina Kemanis, è una sorta di cancello del tempo; l’espressione è alla ricerca di un’anima antica, di una forma di fusione che richiama un dolce rinnovo del medioevo della musica, non per niente si poggia molto sul vocalizzo della Kemanis, che rappresenta il veicolo migliore per riaprire alla memoria vezzi rinascimentali e vocalizzi che ricordano gli influssi di Norma Winstone. Barre è un pilota che svolazza! Il successivo Music by (Ecm 1981) aumenta l’organico ai sax di Hervè Bourde, la batteria di Favre e aggiunge alla Kemanis la voce di Claudia Phillips, la figlia di Barre. C’è più spazio per il jazz, Phillips è più impegnato nel costruire una valida proposta compositiva che possa stare di fianco all’improvvisazione. Tuttavia c’è il sentore che sia persa per strada un po’ di creatività. Si viene subito smentiti da Call me when you get there (Ecm 1984) un trattato sulla bellezza della natura e e degli spazi che l’uomo è riuscito a creare attraverso città, strade, luoghi pubblici; l’atmosfera si divide tra la riflessione e l’agreste, richiama motivi irlandesi, profuma di boschi e vita in libertà; si avverte l’uso esteso dell’arco, qualche sovra incisione, mentre il pizzicato è intimista e traccia linee piuttosto melodiche, ma non è certo qualcosa che somiglia agli intimisti del contrabbasso. E’ piuttosto l’importanza della voce (in condizione simulatoria) e del suo timbro profondo che colpisce, immaginazione trasferita sullo strumento, linguaggio visivo (Highway 37 simula una sorta di ambientazione e movimento stradale), un po’ come fece Haden (mi scappa un ricordo vivo nel duetto con Metheny); non manca l’enfasi sperimentale con Winslow Cavern che insiste su registri glabri del basso, mentre Brewstertown 2 è di una bellezza adamantina, rischiara la mente e lo spirito.

Con Acquarian Rain (Ecm 1992) arriva il momento di sperimentare più a fondo con l’elettronica; ciò avviene con la collaborazione di James Girodoun e Jean Francoise Estager. Dal confronto, il contrabbasso ne esce rafforzato, e in grado di produrre delle estasi sonore che i nastri non sono capaci di fornire. Ha un’aria disincantata grazie anche all’apporto aggiuntivo del percussionista Alain Joule. Sono molte le combinazioni e i suoni provati in questo contesto di trio con la sensazione di un clima glabro ma poco eccitante. Sono i giorni in cui Barre media tra colossi come Evan Parker, Paul Bley e i Maneri: al riguardo si può affermare che le registrazioni relative ammettono più mediazioni intuitive che passaggi ultramoderni. Ma in ogni caso propongono ottima musica, ai confini estremi di un jazz che guarda più ai rapporti che alla singola espressione.
Journal violone 9 è registrato negli studi di La Buissonne, Pernes-les-Fontaines, in Francia nel 2001 (per Emouvance R.) ed ha un’impronta simile a Camouflage, legno vivo che si ascolta, e un’officina della ricerca che in alcuni momenti sembra ricordare qualche artigiano di Battistelli (Borning Nellie’s fire o Windwalk). Piuttosto difficile è il reperimento dell’aspetto melodico.

Quest – Inner door – Outer windows (uno dei tre pezzi presentati in End to end) potrebbe indicare proprio un passaggio graduale dello spirito, l’entrare in una dimensione attraverso i suoni e poi goderne in uno spazio definito. End to end non è un colpo di coda, piuttosto è il tentativo di approfondire aspetti in solo sfiorati ma mai messi in primo piano; il suo idioma è rispettato in un involucro differente. Certamente Barre sembra non aver rimosso nulla del suo splendido percorso interiore, quello descritto nella splendida poesia racchiusa nel cd Call me when you get there: in quella occasione Barre inciampava nelle foglie caduche, sondava la natura tra le pietre e gli alberi, ammirava le sponde del fiume, si interrogava sui corvi che viaggiano sui fili e soprattutto mostrava il suo nascondiglio, che è il suo spazio, il suo tempo, la sua sicurezza e il suo canto di ringraziamento. Outer windows finisce esattamente nelle indicazioni finali di quella poesia: la voglia di tornare a casa dopo un viaggio eccezionale.
Ettore Garzia
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Mark Dresser: un ponte fra città del mondo differenti ma ugualmente importanti.
Per introdurre in maniera congrua i caratteri principali dell'arte del contrabbassista Mark Dresser e commentare il suo ultimo lavoro in solo dal titolo Modicana (per Nobusiness Records), riprendo una parte di quanto scritto in occasione di una delle sue esibizioni a Bari lo scorso anno, a cui ho partecipato:
“…La presenza di Dresser in Italia mi permette di segnalare un'artista che non è mai stanco di progredire: chi conosce il contrabbassista sa come egli ha contribuito alla nascita e allo sviluppo del giro downtown newyorchese, inserendosi con una visione camerale degli approcci improvvisativi, in un momento in cui tutti incominciavano a cercarle. Sebbene le registrazioni siano arrivate un pò più tardi rispetto al top temporale del movimento americano, è bene ricordare la splendida ed innovativa esperienza dell'Arcado Trio, con altri due bigs come Mark Feldman al violino ed Hank Roberts al cello, che produsse due albums notevoli per la Jmt Productions a fine ottanta (Arcado '89 e Behind the myth '90), e prima di gettarsi in un mare di collaborazioni fu in grado di presentare alla comunità musicale il suo pensiero articolato in un cd solista nel '95 dal titolo Invocation (per la Knitting Factory Works), che reputo ancora oggi uno dei suoi picchi creativi, tranquillamente inseribile tra i solo di contrabbasso più importanti in tema di free improvisation degli ultimi vent'anni (Mark ha ripetuto l'esperienza molti anni dopo con Unveil nel 2005 per la Clean Feed). Tra le collaborazioni mi sembrano più eversive quelle con Denman Maroney, Fred Frith e Ikue Mori, tuttavia quelle che preferisco fanno parte di quell'accostamento che Dresser ha profuso per sviluppare sonicità; in tal senso la collaborazione con gli ambienti accademici, diventata sempre più stringente, ha avuto un pinnacolo nel Sonomondo (Cryptogramophone 2000), la prospettiva di assieme cercata con la violoncellista classica Frances-Marie Uitti. Negli ultimi anni Dresser ha incrociato il suo lavoro di insegnante con un bellissimo progetto di improvvisazione corale, costruito su ensemble allargati o mini-orchestre, dando vita da una parte ad organici di suoi studenti a S.Diego, dall'altra gruppi professionali con tanto di musicisti affermati come in Nourishments (Clean Feed 2013) e Sedimental you (Clean Feed 2016); d'altro canto ha appoggiato brillantemente le visuali della cantante Jen Shyu e del pianista Simon Nabatov e partecipato attivamente alla composizione contemporanea tramite il compositore Lei Liang in Luminous…..".
Modicana, il quarto episodio solista di Mark (dopo Invocation, Unveil e Guts del 2010) è un Lp a tiratura limitata che raccoglie l’esperienza dell’uomo che riversa in arte sonora le sue sensazioni: si tratta di pezzi registrati durante il festival di Umea in Svezia nel 2016 e di altri pezzi registrati al dipartimento di musica di S.Diego nel 2017, tenendo ben in mente colleghi americani e colleghi frequentati durante i tours sui quali aprire uno scenario rivalutativo; esplicativo dei suoi orizzonti, Modicana esalta la natura interpretativa, un cerchio di soluzioni che partono da uno straordinario rapporto con la tastiera: penso che ci siano pochissimi contrabbassisti nel mondo che riescono a colpire/tirare le corde nella modalità di Dresser; ciò che colpisce è la definizione limpida delle note, anche nei casi in cui la velocità di esecuzione ne comprometterebbe l’esito (sentire cosa succede in Hobby lobby horse); ma è una delle qualità dell’americano, che in Modicana omaggia uomini e luoghi secondo la propria percezione, quella dell’improvvisatore che regola l’istante. I ritorni acustici e liminali di Invocation si ripresentano in Invocation Umea e Threaded (qui proposta in una nuova versione), mentre For Glen Moore (dedicata al contrabbassista degli Oregon) è uno splendido esempio di quanto si può ricavare da una compenetrazione dei ritmi e delle melodie.

Ettore Garzia
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